La casa di Andy Warhol agli Hamptons: venduta per 50 milioni di dollari

Ogni appassionato d’arte si chiede prima o poi come viveva (o come vive) il proprio artista preferito.C’è chi in vita non ha fatto fortuna con tele e pennelli  e si è dovuto accontentare di dimore modeste; non è certo stato il caso di Andy Warhol. Una delle sue proprietà, nell’ex villaggio di pescatori di Montauk, Long Island, è stata venduta per la cifra record di 50 milioni di dollari. La residenza era una delle preferite da Warhol: come dargli torto? Vista incredibile sull’oceano,  350 mq di residenza principale, 5 cottage annessi, 9 camere da letto, 11 bagni, due enormi camini nel soggiorno.

 

Chi si è potuto permettere questo investimento? Un certo Adam Lindemann, collezionista d’arte e fondatore della galleria Venus Over Manhattan, New York. La proprietà è stata acquistata da Warhol nel 1971, e qui, fino alla sua morte avvenuta nel 1987, ha ospitato grandiosi party con artisti, star di Hollywood, roskstar.

Ma negli interni di questa bellissima dimora non si avverte quel senso di opulenza tipico della Upper Class newyorkese, i benestanti che da New York prendono dimora nei mesi estivi o nei fine settimana negli Hamptons. Tutt’altro: sono interni equilibrati, posati, in linea con il carattere mite che caratterizzava il maestro della Pop Art.

Il miracolo è compiuto: con Christo si cammina sulle acque

Tutto è pronto: tra qualche giorno cammineremo sulle acque. Il Maestro  lascerà il suo (effimero) segno sul lago di Iseo dal 18 giugno al 3 luglio. E su questo segno potremo camminare e far parte di un’opera d’arte…temporaneamente. Dopodichè, come sempre per le opere di Christo, il tutto verrà smantellato (e riciclato). Per continuare a esistere solo nei nostri ricordi.

Land Art? Christo dice di no. Per lui , e per noi, è qualcosa di diverso: la sua arte è più legata al mondo dell’effimero, ed è più vicina per questo all’happening. E’ architettura, è scultura, è evento, è museo: tutto insieme. Difficile trovare una definizione per questa e per tante opere di Christo, ma di sicuro è uno spazio multi-sensoriale da vivere e nel quale immergersi, completamente.

Forse una delle opere più iconiche  per Christo, che realizza con “The floating piers” (i pontili galleggianti) un sogno durato decenni. I numeri: 200mila cubi di polietilene ad alta densità, coperti da 70mila metri quadrati di scintillante tessuto arancione, migliaia di visitatori attesi, 3 chilometri circa di percorso, 16 metri la larghezza della passerella. Alberghi tutti prenotati. Parallelamente sarà allestita  una mostra a Brescia fino al 18 settembre sui progetti legati all’acqua di tutta la carriera dell’artista.

 

l punk compie 40 anni: una mostra a Milano per festeggiare

“Essere punk vuol dire essere un fottuto figlio di puttana, uno che ha fatto del marciapiede il suo regno, un figlio maledetto di una patria giubilata dalla vergogna della Monarchia, senza avvenire e con la voglia di rompere il muso al suo caritatevole prossimo.”

Milano – Con queste parole Johnny Rotten, cantante dei Sex Pistols, ci dà un’idea abbastanza precisa su cosa significhi, per lui, essere punk. Ed è una voce quanto mai autorevole, visto che viene (quasi) tutto da lui e i suoi compari. Sì, perchè se le origini del movimento musicale più autodistruttivo, nichilista e dissacrante di sempre sono difficili da inquadrare precisamente (nei primi anni ’70 i primi gruppi proto-punk cominciavano a spuntare nella east-coast americana, a New York e Detroit  in particolare), è dalla metà dei ’70 che il movimento approda in Inghilterra, esplode, fiorisce e declina nel giro di pochi anni. Intanto, è nel novembre del ’76 che esce “Anarchy in the U.K.”, primo singolo dei Sex Pistols. E in Inghilterra, addosso a un’intera generazione iniziarono a spuntare crestoni, borchie, spille da balia nelle orecchie, “A” per “Anarchy” un po’ ovunque.  Moda? Sì. Movimento generazionale? Sì. Un nuovo genere musicale? Sì. Il punk è stato tutto questo e anche di più: un’ondata potente di energia contro il potere e i simboli di un’Inghilterra perbenista, bigotta e dalla mentalità vecchia e stanca. Un grido di rabbia sberciato da una giovane gola ubriaca, strafatta e sanguinante, una nuova filosofia dell’estetica, autodristruttiva e ribelle come mai prima.

Londra fa sul serio per festeggiare questi 40 anni di provocazione: eventi, concerti e mostre non si contano dall’inizio dell’anno.  Anche l’Italia non vuole essere da meno nel ricordare quegli anni tumultuosi e l’eredità che il punk ha raccolto negli anni a venire.

Punk in Britain” è il nome della mostra che dal 12 giugno al 28 agosto porta alla Galleria Carla Sozzani a Milano oltre 90 fotografie per documentarne i personaggi.  Scatti di Simon Barker (Six), Dennis Morris, Sheila Rock, Ray Stevenson, Karen Knorr, Olivier Richon alternati a disegni, collage e grafiche di Jamie Reid (sua la grafica della Regina Elisabetta  in copertina di God Save the Queen), oltre a  una sezione speciale dedicata ai video e alle fotografie di John Tiberi, storico manager del gruppo.

Punk is (not) dead.

Edward Hopper – a Bologna il suo realismo sempre attuale

Bologna – la pittura di Edward Hopper (1882 – 1967 ) è inconfondibile. Anche per i non addetti ai lavori è facilissimo riconoscere le sue tele. Hopper ha saputo come pochi imprimere su tela  il suo tempo, la sua contemporaneità. Ha raccontato della sua America, che è un po’ l’America di tutti. Ma dietro il suo realismo c’è di più:

“Non dipingo quello che vedo, ma quello che provo” diceva.

E’ stato Pop, senza esserlo mai stato veramente. Le sue tele sono intrise di un languore metropolitano quasi Pulp, senza essere però Fiction. Si potrebbe dire che la protagonista nella maggior parte delle sue tele è l’architettura, forse perchè gli esseri umani sono relegati a un ruolo secondario nella composizione. Forse. Ma forse la vera protagonista delle sue tele è la solitudine.

Fino a fine luglio, a Palazzo Fava a Bologna, trovate 160 tra le sue opere più famose provenienti dal Whitney Museum of American Art di New York. La mostra compre oli, acquerelli, carboncini e gessetti e dà conto dell’intero arco temporale della produzione di Edward Hopper. Una mostra imperdibile, dalla qualità innegabile, per indagare malinconia e tristezza nell’America di allora, straordinariamente simile all’America di oggi.

Nuovo murales di Bansky: in una scuola elementare

Bristol –  “Papà, papà, oggi in cortile sul muro c’era un nuovo disegno”.

Sorpresa! Bansky ha colpito ancora. E questa volta, nella sua città natale (Bristol), in una scuola elementare. Nonostante il pubblico dall’età media decisamente inferiore rispetto al solito, Bansky non ha lesinato con il suo solito humor dissacrante: una bambina  (stilizzata) che gioca con un pneumatico in fiamme (realistico).

A quanto pare, l’opera è una sorta di ringraziamento da parte dell’artista verso la scuola.  “Cara Bridge Valley School, grazie per la lettera e per avermi intitolato un’aula. Fate una foto. Se non vi piace sentitevi liberi di aggiungere cose. Sono sicuro che i maestri non si dispiaceranno. Ricordate: è sempre più facile ottenere il perdono che il permesso”, scrive Bansky in una lettera indirizzata al preside.

Vi piace Bansky? Bene, fate una capatina a  Roma: prosegue la grande esposizione “War, Capitalism & Liberty“; a Palazzo Cipolla  sono presenti 150 lavori provenienti da collezioni private internazionali.

Un’opera pop contro la violenza sulle donne

Verona  – Come vede una donna un uomo che la picchia? Come un giocattolo. Una bambola. Ecco in una riga sintetizzato il pensiero di Lady Beche con la sua “Beaten Barbie” vuole dare la sua personale visione a un tema purtroppo sempre d’attualità: la violenza sulle donne. Il pop dell’icona Barbie dissacrato da lividi e tumefazioni,  un sorriso incerto e simulato, che nasconde la sofferenza fisica e la sconfitta interiore che milioni di donne nel mondo vivono quotidianamente.

L’opera è esposta  a Verona, presso la Triennale d’arte Contemporanea, che fino al 12 giugno accoglie 500 artisti provenienti da tutta Italia e da diversi Paesi del mondo.

L’evento è a cura di Paolo Levi e Sandro Serradifalco, inaugurato da Vittorio Sgarbi