PITTI: un colloquio informale

Movimento e colore. Se dovessi sintetizzare in due parole l’arte di Pitti queste sono le prime due che mi vengono in mente. In realtà dentro la sua pittura c’é di più, molto di più. ‎C’é la ricerca riguardo un segno  personalissimo e subito riconoscibile, c’é contrapposizione e giustapposizione, c’é l’irruenza e la vitalità del gesto sempre in movimento sulla tela, ci sono colori nei colori tutti  da scoprire.  E capita che guardando un’opera di Pitti ci si perda in un turbinio cromatico ed emozionale.

 Facciamoci raccontare qualcosa direttamente da lui:

-Hai mai pensato di fare un tipo di arte che non sia informale? O hai già fatto degli esperimenti in materia?


– Prima di essere un artista aniconico ero figurativo. Parliamo di un periodo che va dai fine anni sessanta ai primi anni settanta.  Mi ero accorto che il figurale mi annoiava,  ho perso l’interesse nel paesaggio e nella figura umana,  mi sembrava di falsificare il reale.  Mi piace la realtà,  la vita, osservare e rispettare il creato. Non esiste nulla di meglio. il resto per me è falsificazione o masturbazione della mente. La mia vita è sperimentale come la mia arte!

– Chi sono gli artisti che più hanno influenzato la tua pittura?

– La prima visione di apertura fu Georges Mathieu e Willem de Kooning, poi mi sono allontanato dalla loro filosofia e mi sono interessato alla pittura Zen, con il Gruppo Gutai degli anni ’50.

 

– Lavorando come art director spesso mi imbatto in giudizi superficiali da parte del pubblico riguardo l’informale. pensi che l’arte astratta sia più “difficile” da proporre al pubblico?

 – Il problema è la mancanza di cultura, molte persone non conoscono se stesse, figuriamoci se possono capire o aver voglia di conoscere le arti in genere.. Ancora meno l’arte aniconica. La gente ha paura delle verità! Le arti sono la nostra storia, la nostra filosofia e a pochi uomini interessa. Nessuna arte perciò è difficile; basta viverla e studiarla.

– C’é un momento della tua carriera artistica a cui sei particolarmente affezionato?

 – Sono particolarmente affezionato all’opera che eseguirò domani, per mille turbamenti e più opero nel mondo dell’arte e più mi sento vivo! 

-Spiegami con parole tue perché l’arte astratta é davvero arte, e da cosa si distingue un buon quadro astratto uno meno riuscito.

 – L’arte astratta non è altro che l’evoluzione dei tempi. Sappiamo che senza il passato, non esisterebbe il presente, io dal mio canto, penso al presente per poter eseguire delle opere per il futuro. Le opere forse meno importanti sono quelle leccate! Io vedo l’opera importante nell’idea, trasformata direttamente sulla tela.L’immediatezza che, va diritto al cuore e con la quale ci lasciamo trasportare, vibrare con essa e che ogni giorno ti dice sempre un qualcosa di nuovo. 

“Ecco l’opera d’arte”. Per me non esiste l’opera non riuscita! Tutto fa parte di un percorso, un ciclo di vita.

 

– Ascolti musica mentre dipingi? Se sì cosa?

 – Ascoltare musica mi dici.. Da ex -batterista chiaro che l’ascolto. Ma  ci sono vari momenti  e soprattutto di notte dove mi piace essere rincorso dal silenzio, travolto da esso,  faccio rumore col mio colore dirompente. La musica che ascolto in genere è classica, Chopin, Mozart, Schubert e altri. Nel contemporaneo mi piace il blues, Lee Hooker, il rock…..Leon Russel, Bob Dylan, Lou Reed, Van  Morrison, Led Zeppelin, e moltissimi altri.

-La tua pittura richiede tele di grandi dimensioni per “esplodere”. Qual é il quadro più grande che hai realizzato?

– Le mie opere non devono essere necessariamente grandi!  Ho realizzato molte opere anche nel piccolo formato. Ma da espansionista che sono ho eseguito migliaia di opere di formato grande. La tela più grande eseguita è stata in Spagna, nel 2005, il formato di lunghezza 50 metri altezza 2,10 mt.

– Che progetti hai per il futuro ?

– Ho diverse proposte da realizzare, in USA, Spagna, Svezia, Italia e Bulgaria.

-E’ qualche anno che vivi all’estero. Che rapporto hai con l’italia e con il paese dove sei adesso?– E’ tutta una vita che opero all’estero, ho cambiato moltissimi studio e continuerò farlo,  per non perdermi. Se mi fermo e come un po’ morire. Con l’Italia ho dei contatti con diverse gallerie. Con il paese dove sono attualmente ho ottimi rapporti con gallerie storiche e con il museo National Gallery.-Chi è Pitti in tre parole?

– Sono un espansionista, battaglio continuamente con il colore e come dicevo 25 anni fa: non me ne basta un tir.

Un giro alla Fondazione Prada

Milan l’è sempre Milan. Mica vero, tutto l’opposto. Si respira un’aria di forte rinnovamento a Milano. Passata la sbronza dell’Expo 2015,  te ne accorgi da parecchie cose: cantieri un po’ ovunque, edifici nuovi che spuntano come funghi ogni volta che ci torni, mostre, iniziative, spazi recuperati. C’è fermento, Milano vuole diventare un polo d’attrattiva in grado di competere con le più importanti città europee, investendo in settori in grado di richiamare forti flussi economici e umani.

In quest’ottica si colloca la Fondazione Prada, che apre i battenti in quel di Milano nel 2015 (e a Venezia nel 2011). Riqualificazione di un ex distilleria dei primi del ‘900, il complesso si sviluppa su una superficie totale di 19.000 m2, di cui 11.000 m2 sono utilizzati per le attività espositive, suddivisi in diversi padiglioni dai nomi che riprendono la loro passata funzione.

Non c’è un percorso obbligato, il visitatore può muoversi liberamente tra i vari spazi senza seguire un ordine preciso. Cartina alla mano, mi addentro negli spazi progettati da Rem Koolhaas e il suo OMA Studio. Inizio dall’intrigante Haunted House (La Casa degli spiriti), rivestita di foglia d’oro, dalle aperture suggestive che si affacciano sul contesto che circonda la fondazione.  All’interno, un’installazione permanente con le opere di  Robert Gober e due lavori di Louise Bourgeois. Minimale, forse troppo:  la vista fuori dalla Haunted House a tratti attira più l’attenzione delle opere stesse.

Proseguo dalla galleria Sud al Deposito, e mi imbatto in uno dei pezzi forti: l’esposizione “Kienholz: Five Car Stud”, a cura di Germano Celant, che riunisce una selezione di opere realizzate daEdward Kienholz e Nancy Reddin Kienholz, tra le quali la storica installazione che dà il titolo a questa parte di mostra. Dopo un percorso con i vari  tableaux, assemblage e sculture di Ed e Nancy Kienholz (tra i quali spicca The Bronze Pinball Machine with Woman Affixed Also, 1980, in cui il corpo di una donna si fonde con quello di un flipper americano, allusione alla donna come oggetto sessuale) arrivi in uno stanzone illuminato solo dai fari di alcune auto. Five Car Stud ti proietta subito in una situazione da incubo, di violenza e alienazione.

La carica simbolica è potente, e al centro dell’installazione, illuminata dai fasci delle automobili, si apre una scena dove l’odio razziale dei bianchi americani verso le minoranze e le coppie miste ti arriva in faccia come un pugno. Presentata a Kassel nel 1972, in patria non ha ricevuto buoni consensi, dove è stata oggetto anche di atti vandalici. That’s America.

Vado avanti con la sezione che ospita “L’image volée”: una mostra collettiva curata dall’artista Thomas Demand, ospitata in un ambiente progettato dallo scultore Manfred Pernice. La mostra occupa i livelli galleria Nord e il Cinema.“L’image volée” ha come intento quello di farci riflettere su come l’iconografia del preesistente giochi un ruolo predominate sulla produzione degli artisti. Alterazione, mancanza dell’”oggetto d’arte”, ready-made contemporaneo, “furto d’artista”, come è stato definito da qualcuno.  L’appropriazione dell’idea, il “furto” da parte dell’immagine e le potenzialità creative di questo processo sono la base sulla quale si snoda questa parte di esposizione. Ecco quindi che mi imbatto ad esempio in una denuncia incorniciata da Maurizio Cattelan a seguito di un furto di un’opera immateriale, o Stolen Rug (1969), un tappeto persiano rubato su richiesta di Richard Artschwager per una mostra a Chicago.  Autori come Erin Shirreff e Rudolf Stingel creano le loro opere usando come fonte una riproduzione fotografica di un’opera d’arte del passato. Interessante la parte che indaga la contraffazione e la falsificazione, con le banconote riprodotte di Günter Hopfinger, per poi approfondire le pratiche vicine alla cosiddetta Appropriation Art. In Duchamp Man Ray Portrait (1966) Elaine Sturtevant, la pioniera dell’appropriazionismo, fa suo il ritratto di Marcel Duchamp realizzato da Man Ray, sostituendosi sia all’autore sia al soggetto della fotografia. Meritevoli di attenzione per chi scrive i lavori sull’alterazione di  immagini preesistenti come le défiguration di Asger Jorn. Interessante anche il livello interrato della galleria Nord dove John Baldessari con un’installazione video, Blue Line (Holbein) (1988) filma di nascosto il pubblico in una stanza a fianco, mettendo così in discussione il ruolo  dello spettatore.

Nella parte sottostante al padiglione Cinema trovo il Processo Grottesco di Thomas Demand. Per realizzare  la fotografia Grotto, Demand ha ricostruito a partire da una cartolina una grotta dell’isola di Maiorca. Con 30 tonnellate di cartone grigio, sagomato al computer stratificato in 900.000 sezioni, l’artista ricrea l’interno della grotta, per poi scattarne una fotografia. Il modello è visibile nella sala adiacente, difficile non rimanerne impressionati.

Decido di prendermi una pausa al Bar Luce, di fronte alla Haunted House : progettato dal regista Wes Anderson, questo bellissimo luogo di ristoro ricrea l’atmosfera di un tipico caffè della vecchia Milano. L’arredamento è notevolissimo, gli interni sono pensati con cura e gusto, il personale è gentile e l’atmosfera è rilassata. Purtroppo riprendendo a curiosare scopro che due padiglioni sono chiusi per l’allestimento di due mostre che apriranno a breve i battenti: esperienza quindi limitata (ma costo del biglietto uguale).
Nel complesso un bel luogo, da visitare, scoprire e riscoprire. Sullo sfondo si staglia la Torre, edificio-landmark ancora in costruzione che lascia trasparire la volontà della Fondazione di guardare al futuro con curiosità e intraprendenza, lasciando una presenza decisa nel tessuto di questa zona milanese. Sicuramente da tornarci quando anche quest’ultima parte sarà ultimata, per godere appieno di tutte le potenzialità che questo luogo ha da offrire.

 

 

I Beatles e l’Oriente: a Torino NOTHING IS REAL

Torino – C’è stato un momento, nella vita del quartetto più famoso del mondo, precisamente dopo l’uscita dell’album Sgt. Peppers, dove il richiamo per l’Oriente misterioso si è fatto irresistibile. Vuoi per il fascino intrinseco, vuoi per la filosofia di vita, vuoi per le innegabili esperienze lisergiche, I Beatles si fanno conquistare dalla magia della filosofia orientale. Incontrano nel 1967 a Londra lo yogi Maharishi Mahesh, fondatore della cosiddetta meditazione trascendentale. E qualcosa scatta, perchè l’anno dopo i Fab Four lo vanno a trovare in India, insieme a un nutrito gruppo di amici, per imparare i segreti della sua arte, si fanno crescere la barba e quando tornano scrivono i loro ultimi capolavori come gruppo.Esperienza fricchettona da fine era hippie o illuminazione spirituale? Probabilmente entrambe, fatto sta che ogni cosa fatta dai Beatles all’epoca creava un riscontro mediatico eccezionale, ma questa esperienza in particolare, senza esagerare, ha aperto le porte dell’Oriente misterioso alla cultura pop dei fine sisxties, dando alla fotografia, alla grafica, alla musica, alla letteratura dell’epoca nuovi esotici spunti.

Nothing is real, curata da Luca Beatrice, allestita al MAO di Torino fino al 2 ottobre, parte da questo momento storico di incontro tra Occidente e Oriente, raccogliendo in un ambiente multisensoriale centinaia di oggetti: dalle memorabilia-reliquie dei Beatles di quel periodo alle fotografie di Italo Bertolasi e di Pattie Boyd, fidanzata di George Harrison dell’epoca, prime edizioni di libri storici come il Siddharta di Hesse e  Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta di Pirsigalle opere di artisti italiani del secolo scorso del calibro di Alighiero Boetti, Aldo Mondino, Luigi Ontani, Francesco Clemente. Ancora: riviste dell’epoca come Paris Match, Telegraph, Life, fanzine, pubblicazioni di controcoltura e indipendenti, grafiche copertine di dischi rock… il tutto accompagnato da note avvolgenti profumate che accompagnano il visitatore nelle varie stanze.

Più che una mostra quindi, Nothing is real vuole essere un percorso visivo-acustico-olfattivo dove il fil rouge che lega il tutto è la fusione mistica tra Oriente e Occidente, un trip dove I Beatles sono visti come un tramite, per accedere a un flusso di immagini e profumi lontani che dialogano in simbiosi con riferimenti a noi vicini.

Me gusta Mucha: in mostra a Genova il gigante dell’Art Noveau

Genova – Non si tratta di arte contemporanea, direte voi. Certo, le opere di Alfons Mucha sono totalmente inscrivibili temporalmente e stilisticamente parlando nell’Art Noveau di inizio secolo scorso, ma preservano tuttora quella forza che ha fatto di Mucha un antesignano della pubblicità moderna. E tutti abbiamo avuto una fase della nostra vita dove abbiamo amato il suo senso estetico. Anche se già in vita (o se vogliamo, al momento della sua morte) lo stile di Mucha era considerato ormai superato, negli anni ’60 ha conosciuto un vero e proprio revival, e numerosi sono gli artisti che hanno attinto alla sua produzione come ispirazione, vedesi ad esempio gli iconici lavori di Bob Masse, storico illustratore di locandine rock – lisergiche. La produzione di Mucha  è eterogenea, raffinata, comprendente moltissime opere. Pannelli decorativi, calendari, manifesti teatrali, copertine per riviste,  illustrazioni librarie, cartelloni pubblicitari. E non solo: gioielli, elementi architettonici, capi di moda.

A Genova, fino al 18 settembre al Palazzo Ducale, potete trovare oltre 220 opere di Alfons Mucha tra affiches e pannelli decorativi, provenienti dalla Richard Fuxa Foundation. La mostra è divisa per sezioni, che spaziano dal teatro alla vita quotidiana; la donna e la bellezza femminile, il giapponismo, il mondo animale, i materiali preziosi, il tempo e l’immaginario floreale. Chiude la mostra una selezione di abiti di sartorie italiane e francesi, a descrivere l’evoluzione del gusto in direzione modernista anche nel campo della moda. E sempre fino al 18 settembre, non perdetevi alla  Wolfsoniana di Genova Nervi “Alfons Mucha: alle origini della pubblicità”, bellissimo spin-off dedicato ai suoi manifesti pubblicitari.

Al di là del mare – un colloquio con Ciro Palumbo

Come un marinaio imbarcato su un vascello dal vento in poppa, Palumbo scruta i paesaggi attorno a lui, restituendoci queste visioni mediate dalle sue molteplici sensazioni. Un vascello con un’anima tutta sua, capace come per magia di staccarsi dalla superficie dell’acqua, per volare sulle onde, per restituirci prospettive prima solo immaginate. Le sue tele sono un cannocchiale per scrutare oltre l’orizzonte del visibile: ci attendono così nuove dimensioni oltre quelle conosciute, dove le statue prendono vita, le barche e i pesci volano, le prospettive sono impossibili, gli edifici contengono universi, il greve diventa leggero e viceversa. Facciamoci raccontare qualcosa di più direttamente da lui:

– Un quadro è un capolinea: è un arrivo (per chi l’ha fatto) e una partenza (per chi lo guarda), diceva Salvo. Nei tuoi quadri questo è evidentissimo: ogni opera rimanda a un instante preso un viaggio immaginifico. A te piace viaggiare?

R: Molto. Anche se i più grandi viaggi li ho fatti in un metro quadro, quello davanti al mio cavalletto.

– Se potessi salpare su una nave domani mattina, dove andresti?

R: A cercar l’isola che non c’è. Mi piacerebbe partire e basta..

– Ogni fase del realizzare un’opera immagino crei sensazioni nell’artista diverse. Cosa ti piace di più? Iniziare o finire un quadro?

R: Credo di preferire la fase del concepimento, l’inizio, e tutto il percorso per arrivare. E’ pur vero che chiudere un quadro è giungere ad un traguardo, ma poi tutto ricomincia.

– Che cosa ti ha spinto a diventare un artista? E’ capitato o l’hai voluto?

R: L’ho sempre voluto, pur non sapendo bene cosa significasse. E poi ad un certo punto, comincio a fare il pittore. Essere Artisti è altra cosa ancora, c’è tanta strada da fare perché è uno stato dell’essere.

– In alcuni quadri si intravede una matrice simbolista. Quanto è importante per te il simbolo come riferimento?

R: Il simbolo è la sintesi massima dei significati delle cose e degli avvenimenti, in esso c’è il rimando ad altro, al mistero e si celano le vie da percorrere per giungere alla verità.

– La tela bianca è un soggetto ricorrente nelle tue opere. Puoi spiegarci qualcosa a riguardo?

R: Un atto da psicoanalisi. La tela rappresenta il mio lavoro, quello del pittore, è una mia presenza o in alcuni casi è la presenza della “pittura” come condizione umana.

–  Come immagini un museo, uno spazio espositivo, una galleria d’arte, tra 100 anni?

R: Esisteranno ancora? Nel frattempo consiglio di andar per mostre.

– Se potessi incontrare un grande artista del passato e prenderci un caffè insieme chi sceglieresti?

R: Mi toccherebbe pagare il caffè ad un centinaio di persone, ma forse per ringraziarli, ruberei del tempo a Savinio e Giorgio de Chirico.

– Hai una tua collezione privata d’arte?

R: Al momento no, ma ho piccoli ricordi di amici.

– C’è un’opera che hai realizzato negli anni a cui sei particolarmente legato?

R: Sono diverse, perché diverse sono le esperienze che le hanno concepite.

– Quali sono le prossime mostre che hai in programma?

R: Ci sono molti progetti. Al momento c’è la personale alla galleria Biffi di Piacenza curata da Alessandra Redaelli intitolata “Lo Spirito e la carne”, tutta dedicata al “cuore” come stato emozionale, come anelito allo spirito divino e il suo contraddittorio. Una mostra che è un esperimento ed una ricerca su soggetto e tecniche. Poi ci sarà un grande evento i primi di Ottobre alla Pinacoteca di Bari, la mostra raccoglierà il lavoro di questi ultimi tre anni con gli inediti sul ciclo del viaggio che è il tema su cui mi sono concentrato di più in quest’anno giubilare. Molto interessante sarà il catalogo che raccoglierà oltre all’approfondimento critico della Redaelli, una piccola raccolta di poesie inedite del poeta e scrittore Aldo Nove. Operazione in accordo con Art’è avendo in comune lo scopo di unire parole ed immagini, dipinti e letteratura, pittura e poeti.
La stagione mi vedrà in collettive in terra di Sicilia, a Roma e poi ancora…

Del perchè Duchamp è stato il primo vero artista contemporaneo

Ieri parlando con un grande esperto d’arte moderna è venuta fuori una domanda, tra il serio e  il faceto: ma il primo vero grande artista contemporaneo chi è stato? Lui: “Picasso, indubbiamente. Un artista completo, in tutto. Grande innovatore. Per te?”. Io ci ho pensato un po’,  ma sulla punta della lingua  avevo già la mia risposta: Marcel Duchamp.

Partendo dal presupposto che “contemporaneo” è un aggettivo sinonimo di coevo, riguardante cioè il periodo che si sta vivendo,  riguardo l’arte ha, almeno, un’altra accezione. Riguarda il superamento della modernità, della rappresentazione oggettiva della realtà, ma anche della resa soggettiva della stessa. In altre parole: con l’arte contemporanea si arriva per la prima volta all’idea, al concetto, come mai prima. E perchè le idee di Duchamp sono state così rivoluzionarie?

Considerato fra i più importanti e influenti artisti del XX secolo, nella sua lunga attività ha attraversato diverse correnti artistiche (dal cubismo al fauvismo, dal dadaismo al surrealismo), dando uno spunto importantissimo per l’arte concettuale, ideando il ready-made e l’assemblaggio.

Credo che le opere di ogni artista debbano parlare per lui, essere dei manifesti chiari e intelliggibili per chiunque, anche per i non addetti ai lavori. L’enormità e l’importanza delle opere del periodo cubista di Picasso ad esempio non si discute: ma capire e accogliere il Cubismo non è da tutti. Qualsiasi opera possa scegliere tra la sua produzione necessita di un’approfondita analisi per essere compresa appieno. Considerando Duchamp invece e prendendo ad esempio due opere, a mio avviso, importantissime per l’arte del XX secolo (ma facciamo anche del XXI), le cose sono diverse.

“L.H.O.O.Q.”, 1919. Una riproduzione fotografica della Gioconda di Leonardo Da Vinci, a cui Duchamp disegna due baffetti e un pizzetto. Il titolo è un gioco di parole, decisamente provocatorio: leggendolo in francese il significato è “Lei ha caldo al culo”, oppure“Lei è eccitata”. Dissacrante e provocatoria,  l’opera non vuole sfottere la Gioconda ma anzi omaggiarla. Duchamp ci dice: voi, che dite che la Gioconda è bella solo perchè vi dicono che è bella, è voi che prendo in giro, non Leonardo.  Duchamp prende per i fondelli  il conformismo dei suoi contemporanei,  e ribalta con uno “scarabocchio” centinaia di anni di dogma. Il suo è un gesto estremo: estremamente semplice ed estremamente importante. Ma è anche estremamente leggero. Sta a dire: ehi, rilassatevi, non prendetevela tanto tanto per questioni artistiche. Prendete l’arte con un po’ di leggerezza! D’altronde, i bambini  quando giocano ai pirati si pasticciano il viso con baffetti e pizzetto finti. Ma nel combinare i loro giochi e le loro avventure, così truccati, essi sono estremamente seri, come direbbe Munari. Ma soprattutto: fatevi una vostra opinione riguardo i fatti dell’arte, e andate oltre il “bello” mercificato dalla massa.

“Fontana”, 1917. L’anno prossimo ci celebrerà il 100 anno dalla creazione di una delle opere d’arte più importanti del XX secolo (nonchè più influenti). Mai esposta al pubblico e andata perduta, Fontana esiste solo nelle 16 copie (dal valore considerevole) sparse per il mondo, esistenti dal 1964. Firmata  sotto pseudonimo”R. Mutt”, anche qui un gioco di parole, dove la “R” sta per Richard, che in slang francese significa “danaroso”, l’opera andò perduta, probabilmente buttata nella pattumiera (ovviamente non da Duchamp stesso).

Perchè è così importante? Immaginate di essere un signorotto borghese che nel 1917, che con gentil signora appresso, andate a visitare una mostra d’arte. E lì, vi trovate un orinatoio capovolto. Come minimo, la vostra signora ha un mancamento. Capovolgendo questo oggetto Duchamp ne vuole capovolgere anche l’idea/funzione. Ecco che non accoglie più i liquidi, ma idealmente li zampilla. Ecco che non è più un oggetto sporco e volgare, ma  firmandolo e volendolo esporre diventa prezioso. Ecco che le forme di un comune orinatoio così sistemato ricordano una testa coperta da un velo di una Madonna rinascimentale,  o di un Buddha seduto nella sua placida rotondità. E qui ci dice: l’arte può essere sacra e importante, senza che il soggetto o i materiali lo siano. Mai prima d’ora si era vista una cosa del genere, e riconosciuta come opera d’arte. (seppur inizialmente a fatica).

Queste due opere sono di fondamentale importanza per tanta arte degli ultimi 100 anni. Sono due opere ancora straordinariamente attuali e lo saranno sempre. Quando si parla di Duchamp è difficile infatti parlare al passato: le sue opere sono freschissime perchè trascendono il linguaggio formale, portandosi dietro l’idea che le anima in maniera trasparente, andando oltre i generi e la tecnica. Si prendono gioco di noi, o meglio, della nostra parte seriosa e poco leggera.Come una battuta fatta da un buon amico: impossibile prendersela, bisogna solo sorriderne.

La casa di Andy Warhol agli Hamptons: venduta per 50 milioni di dollari

Ogni appassionato d’arte si chiede prima o poi come viveva (o come vive) il proprio artista preferito.C’è chi in vita non ha fatto fortuna con tele e pennelli  e si è dovuto accontentare di dimore modeste; non è certo stato il caso di Andy Warhol. Una delle sue proprietà, nell’ex villaggio di pescatori di Montauk, Long Island, è stata venduta per la cifra record di 50 milioni di dollari. La residenza era una delle preferite da Warhol: come dargli torto? Vista incredibile sull’oceano,  350 mq di residenza principale, 5 cottage annessi, 9 camere da letto, 11 bagni, due enormi camini nel soggiorno.

 

Chi si è potuto permettere questo investimento? Un certo Adam Lindemann, collezionista d’arte e fondatore della galleria Venus Over Manhattan, New York. La proprietà è stata acquistata da Warhol nel 1971, e qui, fino alla sua morte avvenuta nel 1987, ha ospitato grandiosi party con artisti, star di Hollywood, roskstar.

Ma negli interni di questa bellissima dimora non si avverte quel senso di opulenza tipico della Upper Class newyorkese, i benestanti che da New York prendono dimora nei mesi estivi o nei fine settimana negli Hamptons. Tutt’altro: sono interni equilibrati, posati, in linea con il carattere mite che caratterizzava il maestro della Pop Art.

Il miracolo è compiuto: con Christo si cammina sulle acque

Tutto è pronto: tra qualche giorno cammineremo sulle acque. Il Maestro  lascerà il suo (effimero) segno sul lago di Iseo dal 18 giugno al 3 luglio. E su questo segno potremo camminare e far parte di un’opera d’arte…temporaneamente. Dopodichè, come sempre per le opere di Christo, il tutto verrà smantellato (e riciclato). Per continuare a esistere solo nei nostri ricordi.

Land Art? Christo dice di no. Per lui , e per noi, è qualcosa di diverso: la sua arte è più legata al mondo dell’effimero, ed è più vicina per questo all’happening. E’ architettura, è scultura, è evento, è museo: tutto insieme. Difficile trovare una definizione per questa e per tante opere di Christo, ma di sicuro è uno spazio multi-sensoriale da vivere e nel quale immergersi, completamente.

Forse una delle opere più iconiche  per Christo, che realizza con “The floating piers” (i pontili galleggianti) un sogno durato decenni. I numeri: 200mila cubi di polietilene ad alta densità, coperti da 70mila metri quadrati di scintillante tessuto arancione, migliaia di visitatori attesi, 3 chilometri circa di percorso, 16 metri la larghezza della passerella. Alberghi tutti prenotati. Parallelamente sarà allestita  una mostra a Brescia fino al 18 settembre sui progetti legati all’acqua di tutta la carriera dell’artista.

 

l punk compie 40 anni: una mostra a Milano per festeggiare

“Essere punk vuol dire essere un fottuto figlio di puttana, uno che ha fatto del marciapiede il suo regno, un figlio maledetto di una patria giubilata dalla vergogna della Monarchia, senza avvenire e con la voglia di rompere il muso al suo caritatevole prossimo.”

Milano – Con queste parole Johnny Rotten, cantante dei Sex Pistols, ci dà un’idea abbastanza precisa su cosa significhi, per lui, essere punk. Ed è una voce quanto mai autorevole, visto che viene (quasi) tutto da lui e i suoi compari. Sì, perchè se le origini del movimento musicale più autodistruttivo, nichilista e dissacrante di sempre sono difficili da inquadrare precisamente (nei primi anni ’70 i primi gruppi proto-punk cominciavano a spuntare nella east-coast americana, a New York e Detroit  in particolare), è dalla metà dei ’70 che il movimento approda in Inghilterra, esplode, fiorisce e declina nel giro di pochi anni. Intanto, è nel novembre del ’76 che esce “Anarchy in the U.K.”, primo singolo dei Sex Pistols. E in Inghilterra, addosso a un’intera generazione iniziarono a spuntare crestoni, borchie, spille da balia nelle orecchie, “A” per “Anarchy” un po’ ovunque.  Moda? Sì. Movimento generazionale? Sì. Un nuovo genere musicale? Sì. Il punk è stato tutto questo e anche di più: un’ondata potente di energia contro il potere e i simboli di un’Inghilterra perbenista, bigotta e dalla mentalità vecchia e stanca. Un grido di rabbia sberciato da una giovane gola ubriaca, strafatta e sanguinante, una nuova filosofia dell’estetica, autodristruttiva e ribelle come mai prima.

Londra fa sul serio per festeggiare questi 40 anni di provocazione: eventi, concerti e mostre non si contano dall’inizio dell’anno.  Anche l’Italia non vuole essere da meno nel ricordare quegli anni tumultuosi e l’eredità che il punk ha raccolto negli anni a venire.

Punk in Britain” è il nome della mostra che dal 12 giugno al 28 agosto porta alla Galleria Carla Sozzani a Milano oltre 90 fotografie per documentarne i personaggi.  Scatti di Simon Barker (Six), Dennis Morris, Sheila Rock, Ray Stevenson, Karen Knorr, Olivier Richon alternati a disegni, collage e grafiche di Jamie Reid (sua la grafica della Regina Elisabetta  in copertina di God Save the Queen), oltre a  una sezione speciale dedicata ai video e alle fotografie di John Tiberi, storico manager del gruppo.

Punk is (not) dead.

Edward Hopper – a Bologna il suo realismo sempre attuale

Bologna – la pittura di Edward Hopper (1882 – 1967 ) è inconfondibile. Anche per i non addetti ai lavori è facilissimo riconoscere le sue tele. Hopper ha saputo come pochi imprimere su tela  il suo tempo, la sua contemporaneità. Ha raccontato della sua America, che è un po’ l’America di tutti. Ma dietro il suo realismo c’è di più:

“Non dipingo quello che vedo, ma quello che provo” diceva.

E’ stato Pop, senza esserlo mai stato veramente. Le sue tele sono intrise di un languore metropolitano quasi Pulp, senza essere però Fiction. Si potrebbe dire che la protagonista nella maggior parte delle sue tele è l’architettura, forse perchè gli esseri umani sono relegati a un ruolo secondario nella composizione. Forse. Ma forse la vera protagonista delle sue tele è la solitudine.

Fino a fine luglio, a Palazzo Fava a Bologna, trovate 160 tra le sue opere più famose provenienti dal Whitney Museum of American Art di New York. La mostra compre oli, acquerelli, carboncini e gessetti e dà conto dell’intero arco temporale della produzione di Edward Hopper. Una mostra imperdibile, dalla qualità innegabile, per indagare malinconia e tristezza nell’America di allora, straordinariamente simile all’America di oggi.