Antonio Ligabue a Genova: il colore dell’irrequietezza

Una mostra a Genova, al Palazzo Ducale, raccoglie fino al 1 luglio 2018 la duplice produzione dell’artista:  autoritratti e animali raccontati in 80 opere tra tele, disegni e sculture. 

Quando si parla di Antonio Ligabue la parola naïf è l’aggettivo che capita subito a tiro per descrivere la sua produzione. Se è vero che le affinità sono evidenti in ogni sua opera (soprattutto nella componente autodidatta), la pittura di Ligabue è tutt’altro che “leggera” e “ingenua”. Ogni lavoro è infatti pervaso da un graffiante senso di drammaticità, di ricerca e di studio, che si stia osservando una tigre in una giungla ostile o un decisamente meno esotico scoiattolo, oppure uno dei suoi tanti, profondi e sofferenti autoritratti. E’ proprio il gran numero di queste opere (circa un centinaio)  che fa pensare alla dimensione di ricerca interiore del pittore: una produzione da cui emerge una profonda tensione emotiva e uno sguardo indagatore, verso il proprio io sofferente e martoriato, così come il suo volto. Un movimento dell’anima dal dinamismo feroce in contrapposizione all’apparente staticità e serialità della posa e dello sguardo. Qualche particolare cambia da un autoritratto all’altro (un cappello, i colori, il paesaggio), ma lo sguardo, angosciato,  rimane sempre lo stesso: gli occhi imploranti di chi cerca di scavare dentro di sè per capire cosa non funziona, una lucida presa di coscienza sul proprio malessere interiore, un grido di aiuto urlato col colore. 

La ricerca quasi psicologica dei suoi autoritratti fa da contrappunto con la conoscenza anatomica sviluppata attraverso lo studio degli animali che dipingeva: tigri, aquile, leoni, scoiattoli, gatti, ragni, serpenti.. La natura lo affascinava, e forse lungo i suoi interminabili vagabondaggi lungo le rive del fiume la sua immaginazione veniva incendiata da immagini esotiche e incontri con bestie nella vegetazione. E’ presente infatti una sorta di effetto sorpresa, di agguato, di tensione, di incontro tra predatore e preda, e anche quando il protagonista animale del quadro è solo, esso sembra all’erta, in agguato, con i sensi che gli comunicano che il pericolo è imminente, che il predatore è vicino.

L’irrequietezza di Antonio Ligabue  attraversa la totalità della sua produzione. Figlio di padre ignoto, nasce nel 1899 a Zurigo e viene affidato ancora infante a un’altra famiglia con cui non legherà mai, passando l’adolescenza in condizioni di indigenza e di malessere emotivo. Nonostante fin dalla giovinezza emergessero le sue doti di disegnatore, il suo comportamento turbolento lo allontana dalle istituzioni scolastiche e nel 1919 viene espulso dalla Svizzera. Approda in Emilia-Romagna, a Gualtieri, senza sapere una parola di italiano. Si dedica alla pittura e ai vagabondaggi senza meta lungo le rive del Po. L’incontro con Mazzacurati nel 1928 fa sbocciare il suo talento artistico, ma gli anni della maturità sono dominati dall’instabilità emotiva che lo accompagnerà per tutta la vita, con crisi maniaco-depressive, episodi di violenza e ricoveri in ospedali psichiatrici. I critici e i giornalisti si interessano alla sua opera a partire dalla fine degli anni ’40 e nel 1961 viene allestita la sua prima personale a Roma.  Muore nel 1965: nel suo paese lo conoscevano come Al Matt, “il Matto”.